29 Luglio 2022 / News
Postilla anacronistica sulla Mostra dedicata a Dostoevskij
La Casa di Alessandro Manzoni – lo ha detto Niccolò Tommaseo quasi duecento anni fa – è un «luogo sacro», e quindi dovrebbe, come ogni chiesa, come ogni santuario, tenere sempre aperta la porta.
Ora questo non è possibile, per cause essenzialmente economiche, su cui il Ministero della Cultura rifletterà. Ci scusiamo se fino al 5 settembre Alessandro Manzoni dialogherà nel suo silenzio con gli ospiti in attesa.
È ‘lui’ che invita a considerare, dopo il rumoroso bicentenario del 1821, quello del più raccolto e creativo 1822, l’anno che si chiudeva a novembre con l’Adelchi, preceduto e protetto dalla ristampa dei quattro Inni Sacri, seguito a distanza di poche settimane dallo sbarramento ideologico delle cinquanta copie di un ella sublime quinto Inno Sacro.
Manzoni si lasciava alle spalle le due odi, occasionali, di guerra: Marzo 1821, che si conosce, come ben noto, in un testo del 1848, e Il Cinque Maggio, innalzato sulla storia di un guerriero che per quindici anni aveva convocato sui campi di battaglia la vecchia Europa.
Ma ecco le diverse ragioni e il (ri)sentimento della guerra in Adelchi: la coscienza tragica di un aggredito, che vuole redimersi dalla stirpe degli aggressori, si rivolge alla consacrazione della Pentecoste: i supplici che implorano lo Spirito Santo sono i dispersi, gli ignorati, sono gli innominati che combattono, come sarebbe dovere degli Italiani, in condizioni incerte ed estreme per una civile libertà: nell’America Latina, nell’isola degli schiavi ribelli, Haiti, nelle enclaves cattoliche dell’Irlanda e del Libano (e non si offenda Manzoni se si rinvia al poemetto di Luigi Carrer: «Oh Libano! abitar barbare genti / veggo i sacri tuoi boschi, e le fontane / tue sigillate intorbidar gli armenti. / E invan di congiurate armi cristiane / i regni si votaro d’Occidente / da’ tuoi gioghi a stanar l’arabo cane: / ch’ei trionfa il ribaldo, e irriverente / contamina d’oscena orma il terreno / che s’allegrò del Redentor presente»). La preghiera e l’impegno del cristiano chiedono la conversione dei violenti, del sé stesso violento: «scendi bufera ai tumidi / pensier del violento; / vi spira uno sgomento / che insegni la pietà».
Nel riferimento, oltre l’Europa, al continente in lotta con i colonizzatori spagnoli e portoghesi e ad Haiti, Manzoni si confrontava - proprio mentre attendeva al suo romanzo di educazione sociale per il rappresentante della classe popolare, di un villano avrebbe subito segnalato l’inorridito Tommaseo - con il conflittuale problema, assoluto e insoluto, della storia a lui, ai suoi e nostri posteri contemporanea, la redenzione nazionale in dialettica con la redenzione sociale: il Quarantotto lo avrebbe presentato il problema, con rivoluzioni proclami e imperativi anche da Manzoni non pienamente compresi: gli sarà difficile rispondere, come dimostra la rinuncia a un esame comparativo tra la rivoluzione, sociale, della Francia e quella, nazionale e sabauda, dell’Italia.
Ha scritto Vasilij Grossman (Tutto scorre…): «Gli italiani e in seguito i tedeschi cominciarono a maturare, ognuno a suo modo, l’idea di un socialismo nazionale»: porta al Novecento, alle tragedie che la Storia invita a non rimuovere, per la faticosa e ancora a lungo propedeutica educazione alla democrazia (vocabolo da risemantizzare, quanto gli intollerati composti da ogni -crazia).
E ci si ripropone, con lui, la domanda, che a Casa Manzoni si è affacciata prepotentemente l’ottobre scorso:
Dov’è mai l’«anima russa», «panumana e omniarmonizzante», cui Dostoevskij presagiva di «pronunciare il verbo definitivo della grandiosa armonia generale, del definitivo accordo fraterno di tutte le popolazioni nel nome della legge evangelica di Cristo?»
Grossman (il più bel dono di Roberto Calasso ai suoi venticinque lettori, con buona pace delle acculturazioni giornalistiche) deve aiutare a rileggere Manzoni, Manzoni obbliga a leggere Grossman, criticamente, con reciproca e nostra libertà di intelligenza, dissenso: anche di un piccolo uomo che si sente chiamato a giudicare i grandi attori e le comparse della Storia, che rimane sua, e che, ai piedi e in ritto in piedi di fronte a Cesari, Kaiser, Zar, non dimentico dei disumani tiranni damnandae memoriae del secolo scorso, dubbioso dei Romolo Augustolo del presente («un Marcel diventa…»), si ordina: «continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo» (La Madonna Sistina).
Angelo Stella